Con la sentenza n.6030 del 14/03/2014 la Suprema Corte di Cassazione ha avuto modo di precisare che la decorrenza di un anno dalla cancellazione di una società (nel caso trattavasi di società in accomandita semplice) dal registro delle imprese ne preclude la dichiarazione di fallimento, ai sensi dell’art. 10 L.F., anche in assenza di motivi per ritenerne il carattere fittizio, risultando in tal caso la tutela dei creditori esigenza recessiva rispetto a quella più generale della certezza dei rapporti giuridici.
Ben possono inoltre i creditori provocare altri tipi di sanzione attinenti ad eventuali vizi della fase della liquidazione, agendo verso i soci ed i liquidatori ex artt. 2312 e 2495 c.c.. Né può essere chiesto al giudice di disapplicare l’atto amministrativo della cancellazione, ipotizzandone l’emissione in carenza dei requisiti formali e sostanziali, che presupporrebbero la liquidazione della società.
Invero, se non è dimostrata la continuazione di fatto dell’attività d’impresa, gli effetti della cancellazione conseguono pur dal valore dichiarativo della formalità per come attiene alle società di persone, così determinandosi un fenomeno successorio: le obbligazioni si trasferiscono ai soci, che ne rispondono nei limiti di quanto ricevuto a seguito della liquidazione o illimitatamente, se questa era la responsabilità pendente societate. E tuttavia la mera sussistenza di residui debiti sociali non giustifica comunque la richiesta disapplicazione, divenendo altrimenti essa lo strumento indiretto per ripristinare, com’era prima della sentenza della Corte Costituzionale n.319/2000, la protrazione indefinita della situazione di fallibilità che anche la riforma ha voluto eliminare.
Quel che semmai servirebbe a riaprire il termine annuale è un atto amministrativo positivo, uguale e contrario alla cancellazione, cioè l’iscrizione nel registro delle imprese della cancellazione dell’atto di iscrizione della cancellazione della società adottato ai sensi dell’art. 2191 c.c..
Avv. Angelo Di Gaeta