L’impresa familiare
L’impresa familiare trova la sua definizione normativa nell’articolo 230-bis del codice civile.
Il primo comma dell’articolo in commento testualmente sancisce che: “Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi della azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato. […]
Il terzo comma, poi, precisa che si intendono come familiari il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado.
Pertanto la prima considerazione che deve essere compiuta è quella che l’impresa familiare è istituto residuale, nel senso che ricorre solo quando le parti non abbiano dato, espressamente o tacitamente, una diversa configurazione tipica al loro rapporto, ad es.: società, associazione in partecipazione, lavoro subordinato o autonomo, ecc., ecc. (in questi termini vedasi Cass. civ. n.24700/2005; Cass. civ. n.20157/2005; Cass. civ. 2628/1999).
Questo tipo di impresa, secondo lo scopo del legislatore, ha il fine di apprestare una tutela minima ed inderogabile ai rapporti di lavoro che si svolgono in comune all’interno della famiglia (così Cass. civ. n.6505/1996).
A differenza della società, l’impresa appartiene solo al suo titolare, mentre i familiari hanno diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia, nonché alla partecipazione agli utili e agli incrementi patrimoniali, in proporzione della qualità e della quantità del lavoro prestato (così Cassazione Civile n.19683 del 23 dicembre 2003 e Cassazione Civile numero 9897 del 20 giugno 2003).
Per determinare l’ammontare della quota di partecipazione agli utili e agli incrementi cui il familiare ha diritto, non può comunque essere presa come parametro di riferimento la retribuzione corrisposta ad un lavoratore subordinato che svolga mansioni analoghe; inoltre qualora sia stata redatta una scrittura di costituzione dell’impresa contenente l’indicazione delle percentuali di partecipazione agli utili e degli incrementi, questa ha valore puramente indiziario e su di essa prevale l’effettivo apporto lavorativo prestato (in questo senso si è pronunziata Cassazione Civile n.20574 del 29 luglio 2008).
Il familiare interessato ha l’onere di provare l’ammontare degli utili da distribuire al netto delle spese di mantenimento.
La maturazione del diritto di partecipazione agli utili dell’impresa familiare, dalla quale decorrono rivalutazione e interessi, coincide con la cessazione dell’impresa medesima o della collaborazione del singolo partecipante, salvo patto di distribuzione periodica tra i partecipanti (così Cass. civ. n.17057/2008).
La competenza a giudicare delle liti tra i suoi componenti è, quindi, quella del giudice del lavoro.
Presupposto per l’applicabilità della disciplina inerente impresa familiare è l’esistenza di una famiglia legittima, pertanto tale normativa non si applica nel caso di mera convivenza ovvero sia di famiglia di fatto (sull’argomento vedasi Cassazione Civile n.22405 del 29 novembre 2004).